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Una tradizione risalente a Plutarco vuole
che Archimede abbia inventato degli specchi con i quali incendiare le navi dei romani che
assediavano la città di Siracusa. Come fossero costruiti questi specchi Plutarco non lo
dice, ma è chiaro che doveva trattarsi di specchi curvi, dato che con uno specchio piano
si potrà forse abbagliare qualcuno, ma non incendiare una nave, per quanto di materiale
infiammabile come il legno.
L'idea che soggiace alla costruzione di uno
specchio ustorio è quella di usare una superficie riflettente come un condensatore di
raggi solari, che concentra in una piccola zona (meglio in un punto, il fuoco) i raggi che
cadono sull'intera superficie. Si possono ottenere in questo modo delle temperature
piuttosto elevate, sufficienti ad incendiare del materiale infiammabile posto nel fuoco.
Le grandi centrali solari funzionano sulla base di questo principio.
La forma più semplice di uno specchio
ustorio è quella di un paraboloide di rotazione, una
superficie che si genera facendo ruotare una parabola attorno al suo asse.
Nella parabola infatti esiste un punto F,
chiamato per lappunto fuoco, con la proprietà che i raggi paralleli all'asse che si
riflettono sulla parabola passano tutti per F. Poiché per la lontananza del sole dalla
terra i raggi solari si possono considerare praticamente paralleli, lo specchio parabolico
li concentra tutti nel fuoco. Questo principio vale anche per le onde radio, e spiega la
forma delle antenne televisive che ricevono i segnali provenienti direttamente da un
satellite e di quelle imponenti dei radiotelescopi.
Nel nostro
ehibit non potendo usare i raggi solari, ci
siamo serviti di due specchi parabolici.
Il primo di essi ha nel fuoco una sorgente
luminosa i cui raggi, riflessi sullo specchio, diventano tutti paralleli. Il secondo
prende questo fascio di raggi paralleli, provenienti dal primo, e lo concentra di nuovo
nel fuoco, dove incendia un fiammifero.
Ma torniamo ad Archimede. Come si vede
dagli specchi esposti, ma anche dalle comuni antenne paraboliche, il fuoco è abbastanza
vicino ad uno specchio, tanto più vicino quanto più lo specchio è curvo. Se si vuole
variare il fuoco, bisogna dunque cambiare la curvatura dello specchio, che deve essere
tanto più piatto quanto più si vuole bruciare lontano. D'altra parte uno specchio quasi
piano brucia poco, perché i suoi raggi tendono a disperdersi e sono molto difficili da
focalizzare.
Dobbiamo allora concludere che gli specchi
archimedei sono una leggenda? Probabilmente si, o quanto meno che essi dovevano essere
molto più elaborati di un semplice specchio parabolico. Così di certo la pensavano non
pochi matematici del Seicento, che a più riprese e senza successo hanno cercato di
ricostruire il congegno attribuito ad Archimede. Tra questi, Bonaventura Cavalieri, un
allievo di Galileo, avanzò lidea di usare due specchi parabolici. Il primo, più
grande, aveva la solita funzione di concentrare i raggi nel fuoco. Qui si trovava non
loggetto da bruciare, ma bensì un secondo specchio parabolico, più piccolo e
riflettente all'esterno, il cui fuoco coincideva con quello dell'altro. I raggi diretti
verso di esso venivano allora riflessi, e uscivano di nuovo paralleli, ma concentrati in
un raggio molto più stretto. Inutile dire che, benchè ingegnosa, anche questa idea non
ebbe successo, sia per la difficoltà di costruire uno specchio parabolico abbastanza
preciso, sia perchè il calore che si generava su di esso lo rendeva presto inservibile.
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